Della vita e della morte e di un treno da prendere all’antivigilia di Natale. Piccolo miracolo e imprecazione laica contro le ingiustizie mai risolte.
Grazie, grazie, grazie: nessun altro si sarebbe
fermato per darci una mano. Marco
risponde facendo spallucce e sdrammatizza con un Siamo italiani, noi! Lei per la prima volta in questa lunga
mattinata sorride: la piccola è dentro l’ospedale in osservazione ma la
dottoressa ci dice tutto bene.
Avrebbe
potuto morire per lo scontro fra le sue ossicine da bambina di forse quattro
anni e la carrozzeria di un fuoristrada sudafricano. Il tonfo, Marta e io, non
lo abbiamo sentito: ma quando siamo arrivate al punto dell’incidente, neanche
un chilometro da casa, e l’abbiamo vista in braccio alla sua mamma ce ne siamo
potute fare una vaga idea. La sorellina e gli altri bambini di chissà chi lì
con un anziano ammutolito tutti accerchiati dai loro bagagli che stavano con
loro lungo la strada in attesa che qualcuno li caricasse. Lei che piange in
silenzio e pian piano le cade la testa per un sonno improvviso che in ogni modo
bisogna contrastare. E la madre, che avrà sì e no 20 anni, che parla solo di un
treno da prendere che passerà fra tre ore in una città lontana da lì, da
raggiungere con mezzi di fortuna. Niente trasporti pubblici, niente taxi,
niente amici che ti ci portino. Si cammina sotto il sole per ore e prima o poi
qualcuno ti tirerà su, in cambio di qualche rand. I bambini sono sgamati ma
sono pur sempre bambini che non dovebbero stare lì e capita, come oggi è
capitato, che attraversino la strada per un improvviso buon motivo. Ma i
bambini qui sono abituati a passare da lato a lato delle autostrade semplicemente
per andare a scuola o a giocare una partita di pallone.
Mentre
Giorgio e Marco, che stavano su quel fuoristrada, anche loro scioccati accolgono
come un avvento l’arrivo di un poliziotto della stradale, Marta e io cerchiamo
di fare capire alla giovane mamma che quell’unico treno al giorno verso la sua
città natale lo deve perdere e venire con noi al pronto soccorso. Lei resiste.
Capiamo quanto debba essere importante per lei partire, in questa giornata
iniziata di sicuro presto per raccogliere tutte le cose sue in un valigione
fucsia, un sacchetto della spesa, un cestino con dentro pezzi di pollo per il
viaggio e una coperta per il freddo della sera. La township dalla quale arriva si
trova da lì forse tre chilometri e chissà quanto ci avrà messo a raggiungere
quel punto. Capiamo l’urgenza che ha questo suo partire, ma insistiamo. Eppure
alla fine impieghiamo meno tempo a convincere lei, che Giorgio e Marco a
lasciare le proprie generalità al poliziotto il quale nemmeno gliele chiede e realizzato
che non ci sono morti se ne va. L’uomo in divisa è un nero, la mamma e le bimbe
sono nere. Come il sindaco di questa città in cui ci troviamo, come i
presidenti di questo Paese negli ultimi 18 anni. Pietà l’è morta. Perché questa donna è da sola, abbandonata su una
strada, divisa tra salvare la figlia e prendere un treno? Come si è arrivati
fin qui? Non ci possiamo credere e allora carichiamo tutto in macchina e
corriamo al pronto soccorso. Da lì il ricovero e poi portiamo a casa mamma e
sorellina, in una delle township con le casette in muratura e colorate e alcune
con bellissimi fiori nel giardino.
Continuiamo a svoltare di strada in strada,
su e giù per la collina su cui si allunga il quartiere e arriviamo davanti al
punto di partenza di questa giornata, di questa donna in fuga con le figlie,
non una di quelle case belle ma le baracche di latta dei più poveri dei poveri.
Lei è giovane e bella e le bambine di più: indossano scarpine colorate e
cinture rosse con il cuoricino che brilla a ogni movimento. Non smette di
ringraziarci ma intanto l’abbiamo riportata lì, da dove poche ore prima era
riuscita ad andare via. Chissà se per un posto migliore altrove dove forse oggi
proverà ad arrivare. Buon Natale.
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