Il Demonio e la Riconciliazione (delicata e vera)


Mandela sta bene. Oggi lo assicura la sua cuoca nel corso della promozione del proprio libro “Ukutya Kwasekhaya: Tastes from Nelson Mandela’s Kitchen”. Xoliswa Ndoyiya conferma che il Premio Nobel per la Pace, l’uomo che ha incarnato la lotta all’Apartheid e poi la risurrezione di un Paese, si trova nel villaggio in cui era cresciuto. 
Fra due giorni si festeggia la Riconciliazione in Sudafrica, il Giorno del Perdono.

Cari Sudafricani, accettate questo rapporto come un indispensabile processo di guarigione. Lasciate che la linfa curativa scorra da Pretoria per disinfettare la nostra Terra, il nostro popolo e che porti unità e riconciliazione”, furono le parole con le quali Desmond Tutu accompagnò la presentazione del rapporto della Commissione per la Verità e la Riconciliazione da lui presieduta, all’allora presidente della Repubblica del Sudafrica, Nelson Mandela. Era il 1998. Quattro anni dopo le prime elezioni post Apartheid. 
La Riconciliazione - in tempi brevi e non seguendo quei lunghi processi storici che tengono ancorati al passato e non liberano verso la costruzione di un futuro - è stata la salvezza del Sudafrica. E di molti sudafricani, da qualunque parte stessero.

Oggi, 14 dicembre 2011, il dipartimento penitenziario ha fatto sapere che Eugene de Kock potrebbe accedere al rilascio con la condizionale. La decisione è stata rinviata a data da destinarsi. 
E come si capirà non è semplice neppure per un Paese "riconciliato". 
De Kock nel 1988 venne condannato alla detenzione in carcere di massima sicurezza per un totale di 212 anni per “crimini contro l’umanità” ed è in cella da quasi 14 anni. Era il comandante delle squadre antiterrorismo, un corpo paramilitare al servizio del governo dell’Apartheid: la Vlakplaas.
La decisione che verrà presa sul futuro di De Kock terrà conto anche delle posizioni delle vittime. E non è cosa da poco. C'è da imparare. 

Nel 2009, De Kock aveva chiesto la grazia a Jacob Zuma, ma la Corte Costituzionale proibì al Presidente di concedergliela. “Io penso che Zuma possa capire la mia posizione perché è stato anche lui un combattente”, disse De Kock per spiegare la propria richiesta.
Spero di trovare, perché vorrei capire di più, A Human Being Died That Night libro scritto da Pumla Gobodo-Madikizela, oggi docente universitaria a Cape Town, in passato psicologa a servizio della Commissione per la Verità e la Riconciliazione. “No, De Kock non è uno psicopatico e non lo era. Io ho scrutato a lungo nei suoi occhi, cercando segni del demonio, della cattiveria. Ma il suo sguardo trasmetteva sofferenza. Io non ho provato altro che pietà, come quando un amico è in uno stato di sofferenza, di dolore”. Queste parole di Gobodo-Madikizela, in un’intervista al Sunday Times, rischiano di non essere capite, se non ci si siede a leggere il resto dell’articolo e se non si ha rispetto per chi il “Diavolo”, come era soprannominato De Kock, lo ha visto da vicino.
A me è bastato ritrovarmi sui ripidi pendii delle montagne in una meravigliosa farm di un Malan, un omone alto e grosso e vecchio che con i figli carica e scarica litri di ottimo vino. Afrikaans! French! Proclama il giovane. Mi è bastato vedere una foto in bianco e nero di tutta la famiglia con il Primo Ministro, uno di quelli dell’Apartheid più estremo, forse un parente di quel signore in carne e ossa davanti a me, per sentirmi così scossa dalle domande e ancora domande che lasciano posto ad altre domande, come ogni volta che cammino per strada, bevo un caffè, ogni volta che parlo con un bianco o con un nero o semplicemente li guardo camminare con i loro modi tutti diversi e mi domando.  


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