La giustizia cieca e quella dei poveri. Neri.
Sorride, sbuffa e riduce in coriandoli anni di politicamente
corretto con una battuta semiseria:“Sono donna, bianca e pure cieca: un
lavoro me lo dovranno pur
dare”. Poi scoppia in una risata,
Liesle, 24 anni, e riprende a mangiare il Bobotie, un piatto tipico sudafricano
ricco di carne e besciamella e curry e altre mille spezie, succulento pare, a
meno che non si sia vegetariani come me.
In una cena tra nuovi vicini, si discuteva delle leggi che
in Sudafrica garantiscono alle minoranze diritti inalienabili, bianchi compresi
ovviamente, e a quelle che nello stesso tempo prevedono più possibilità di
ottenere un lavoro a chi fa parte della maggioranza, nera s’intende. Di un
equilibrio bello a vedersi, se arrivi da lontano: ma dannatamente difficile,
eppure possibile, quando lo vedi da vicino.
Non fosse stato per il numero chiuso, Liesle avrebbe
studiato da magistrato, proprio perché non ci vede: “Ci vuole una sensibilità
particolare, ci vuole un’imparzialità tale di fronte a situazioni così
delicate, che se non vedi, puoi sentire diversamente, puoi capire di più grazie
agli altri sensi”, ci spiega amorevolmente il padre mentre gli facciamo
compagnia in una delle aule del Tribunale dove si processa l’autore di un furto
subito in casa, una Arsenio Lupin in gonnella, quasi una bambina e tutta ossa.
L’aula di giustizia è come quelle che si vedono nei film
americani, tutta di legno massiccio lucido e scuro, con il giudice seduto nello
scranno più alto a dominare la scena e il palco con il microfono per l’imputato
che qui però dà le spalle al pubblico sempre assiepato sulle panche consumate.
Ci sono le mamme, le fidanzate, talvolta le nonne o ragazzi che si prendono la
cura dell’imputato al posto di genitori che chissà dove sono, spesso morti di
Aids o di un semplice diabete che non c’è il tempo di curare. Sul muro, che
tutti possano vederlo, c’è appeso, sbilanciato su un lato, l’emblema nazionale con
i colori del Sudafrica, il sole che splende, il Secretary bird, l’imponente
rapace africano che rappresenta la giustizia, la Protea, meraviglioso fiore indigeno
che qui cresce selvaggio e che viene venduto al costo dell’oro nel resto del
mondo. Ci sono poi altri simboli, altre immagini, a dire la complessità della
storia di questo paese e poi il motto scritto in Khoisan !ke e: xarra ke che significa più o meno “popoli diversi uniti”.
Non vigesse il divieto di entrare in tribunale con la
macchina fotografica, ora ci sarebbe la foto più significativa di tutte, quella
con il giovane in tuta verde e la scritta gialla South Africa sulla schiena. E’
nero, come tutti gli altri imputati, come il giudice, come il procuratore, come
il suo avvocato d’ufficio, un uomo sulla cinquantina sulla cui toga nera si
appoggiamo i dread dei lunghi capelli e della barba che pende da una faccia solare
con uno sguardo arguto. La sua difesa riconcilia con la Giustizia e con il
rispetto umano in generale. Della trentina di casi passati nel corso della
mattinata, due terzi vengono postposti per “mancanza della documentazione
relativa al caso”, come ammette con un filo di voce il “prosecutor” incurante
dell’effetto sempre più ridiculous agli occhi di tutti gli astanti. Quello con
la tuta sudafricana, che alla sua età vanta almeno un omicidio, viene invece
mandato ai servizi correzionali, con il beneplacito della mite madre chiamata a
testimoniare il proprio impegno per recuperare il giovane figliolo. Ricordo
ancora l’immagine scioccante di un paio di anni fa, al ritorno dal mare, fermi
a un benzinaio e un ragazzo con la pelle lucida e i lineamenti magistralmente
scolpiti, come nelle statuine che si trovano ai mercati di tutto il mondo, che
scende dalla macchina diretto ai bagni pubblici, con un poliziotto in borghese affianco
e le catene alle caviglie. Con nonchalance, a me che mi sembrava fosse ormai roba
da film o da Huckleberry Finn, mi spiegarono che è semplicemente per evitare probabili
fughe. Come non capire.
Commenti
Posta un commento