Cosa succede in Sudafrica\la lunga rivolta dei minatori




Cosa succede, Lorella, in Sudafrica? La domanda ha registrato una ripida impennata dopo il bagno di sangue di Marikana, più o meno come alla borsa il prezzo del platino altrimenti in discesa dallo scorso novembre.

Partiamo dalla coda: l’Amplats (Anglo American Platinum) ha detto poco fa di aver sospeso le operazioni nelle miniere del Rustenburg per “proteggere i dipendenti della società dalle intimidazioni”. Sono le miniere dove dalla scorsa notte polizia e manifestanti si stanno confrontando come avviene fuori da altri siti minerari, di cui Marikana è ormai il più tristemente famoso.
La multinazionale aveva dapprima smentito che a manifestare fossero i propri dipendenti e ha anzi addirittura chiaramente detto che si tratta di elementi estranei con l’obiettivo di esagitare gli animi. Insomma, infiltrati. I manifestanti hanno mostrato invece i badge. Non tutti e mille, certo. Quindi il dubbio istigato dal portavoce della AngloAmerican un po’ rimane lì e rode.
L’altra denuncia si da subito fatta dai vertici del gruppo era quella delle intimidazioni: anche il sindacato Num aveva confermato che i propri rappresentanti avrebbero subito in alcuni casi intimidazioni. Il Num è il sindacato “filogovernativo”: quello che si sta contendendo con il nuovo e più radicale Amcu, la rappresentanza dei minatori. Il primo in calo, il secondo in crescita.
Già fin qui ci sarebbe abbastanza matassa annodata da sbrogliare e veleno da spurgare. Ma la questione è che oltre ai sindacati, si stanno tirando colpi mortali anche all’interno dell’African National Congress, per l’ormai già tante volte citato congresso di dicembre.
Intanto sulle desolate spianate secche di terra rossa, non molto distanti dagli sguardi di donne e bambini nascosti tra le baracche di latta, assieme a possibili agitatori di professione ci sono veri lavoratori. Non arrivano solo dal Sudafrica, ma anche dai vicini Stati, compreso il Lesotho, una tessera di puzzle nella Rainbow Nation. C’era tra le autorità anche il re dei Sotho, ai funerali dei 34 morti nella strage del 16 agosto.
I lavoratori protestano per le pessime condizioni di vita: le township in cui vivono sono scarsi di servizi. Le scuole sono quelle dove non arrivano i libri di testo per brutte vicende di corruzione, quelle dove gli insegnanti non sempre sanno insegnare, dove mancano gli strumenti e dove gli strumenti non ci saranno mai.
I lavoratori chiedono innanzitutto di non perdere il posto di lavoro come successo ad altri come loro: la crisi mondiale e le speculazioni di borsa fanno crollare la produzione dei metalli preziosi di cui il sottosuolo sudafricano è ricco.
I lavoratori aspirano anzi a stipendi dignitosi: oggi per andare sotto terra a far esplodere le rocce percepiscono sì e no 500 euro al mese. Ne chiedono almeno il triplo. Devono mantenere sé stessi e le proprie famiglie: molti sono poligami. Un po’ per cultura un po’ per necessità, qui lontano dal proprio paese, dal villaggio d’origine dove spesso moglie e figli rimangono. Altre questioni che complicano il quadro. Lo so che è difficile da capire, ma bisogna usare le parole e i parametri di qui, per capire cosa succede.






La questione è che nemmeno gli agguerriti metalmeccanici nostrani sono minimamente paragonabili a questi lavoratori: le immagini e le foto che dalla strage di Marikana hanno fatto il giro del mondo, mostrano facce e posture da guerrieri. E infatti in mano hanno armi, tradizionali e rudimentali ma armi. Le immagini mostrano scene molto simili a quelle usuali nelle township durante l’Apartheid, quando la violenza interna, tra le varie tribù, era all’ordine del giorno. La morte di 34 persone in 3 minuti di sparatoria scappata a poliziotti senza più controllo – di nervi e di disciplina – non ha fermato il Paese, non ha stoppato la rivolta. Anzi. La potente Lonmin e il Governo sovrano sudafricano hanno lanciato ultimatum che poi hanno dovuto via via ritirare. I manifestanti arrestati sono stati alla fine rilasciati nonostante le minacce di una lunga reclusione. Oggi è stata addirittura annunciata la costituzione di un “comitato di guerra” di coordinamento con tutte le altre miniere in lotta nel Nord Est del Sudafrica.
Le miniere, per le loro condizioni, sono un vulcano in continua ebollizione.
I lavoratori sono una miscela esplosiva naturale che ora, per ragioni politiche, chi se ne sta al riparo sta scatenando e alimentando.
No, non c’entra nulla la questione neri\bianchi. Quella la agitano gli agitatori politici che al riparo nelle belle case – dove ospitare party e dibattere di libri – mai vorrebbero che laffuori si capisse che è la povertà, la vera bestia da combattere. Non fosse mai che i poveri – di qualunque razza di colore siano – si dovessero coalizzare...

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