L'inizio e la fine della lotta dei minatori sudafricani




Cosa induce guerrieri abituati a vivere e morire - in condizioni che noi invece siamo così deboli da non riuscire nemmeno ad ammettere a noi stessi - a riprendere i loro attrezzi da lavoro, dopo settimane di intense e violente morti, dopo quasi cinquanta morti sulla scena degli scontri con la polizia e tra di loro, dopo secoli di deceduti negli abissi della Storia, cosa li induce a dire sì a un aumento di salario risibile rispetto a quanto richiesto? Lo si capirà. In parte. Così stamattina ho provato a spiegarlo brevemente agli ascoltatori della Radio Svizzera Italiana. 



Forse una soluzione temporanea per arrestare la caduta del rand e della fiducia degli investitori; forse è solo il risultato dell’annuncio di lunedì di Lonmin che da fine ottobre salteranno 1200 contratti: fatto è che da giovedì è previsto il ritorno alla normalità, nelle miniere di Platino di Marikane.
Dei termini dell’accordo chiuso ieri sera si sa ancora poco: aumento del 22% e l’equivalente di 170 franchi di bonus per coloro che rientreranno al lavoro sono al momento gli unici due punti sbandierati del compromesso.
Verrà presentato alle 10 di questa mattina alle migliaia di uomini che per settimane hanno lottato fino alla morte. Per ora a parlare è stato solo il vescovo Jo Seoka, presidente del Consiglio sudafricano delle Chiese, chiamato a esercitare l’indiscusso carisma sui fedeli lavoratori. I rappresentanti sindacali, invece, tacciono: Enne Iu Emme e Amcu, sin dall’inizio accusati di essersi resi responsabili di tutti quei morti, esacerbando gli animi dei minatori, si erano incolpati a vicenda e poi autoassolti. Infine spariti.
L’assenza in tutta questa vicenda del Presidente Jacob Zuma e del suo partito, l’Anc, di cui è oggi massimo esponnte, già oggi sono i veri elementi con cui il Sudafrica fa i conti e probabilmente dovrà fare i conti nel futuro immediato di un’economia emergente ostaggio di vecchi schemi politici. 

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