Vengo anch'io, no tu no



No, non vi porto in township a mettere il naso nelle shacks grandi quindici metri quadrati, dove c'è dentro cucina, camera e soggiorno e il televisore che è strumento per rimanere collegati al mondo, e almeno quattro vite che convivono tra pareti di latta dalle quale entra il vento e anche l'acqua, quando piove. Il bagno è fuori, comune con altre shacks, con una chiave che gira. La ragazza che ce lo racconta sorride e spiega che è un po' una scocciatura, ma è così. E' davvero bella, non lo dico solo perché è nera e povera, non mi piace la pietà con la quale noi bianchi siamo abituati a guardare gli altri. E' bella davvero e come lei ce ne sono belle mille altre, anche grasse e sode, con quei culoni che proiettano verso il cielo col portamento dritto e orgoglioso.
Sorride anche lui, il mio maestro di biliardo, in una shebeen di Kayamandi, la township a due passi dal centro di Stellenbosch. Hanno nomi impossibili da ricordare. Ho in mente solo quello di uno dei suoi fratelli, Lerato, che significa Love. Me lo ricordo perché ci sono tanti Lerato e perché uno di loro è una storia bella da raccontare. Che magari un giorno racconterò.

Insomma, il mio maestro di biliardo ha 25 anni e adesso vive finalmente in una casetta di mattoni: aveva un piano come tutte le altre ma ne ha costruito uno in più, un soffitto intarsiato con un lampadario come quelli di cristallo dei palazzi dell'800, grandi finestre luminose e una bella porta di legno trovata nei rifiuti e sistemata. Anche lui è proud e continua a esserlo anche mentre ci porta a vedere la shacks in cui abitava prima e che ora ha lasciato ai fratelli. Mi mostra con il sorriso la sua vecchia camera. Non si può immaginare quanto possa essere piccola e stipata una camera di una shacks: si riempie con il letto matrimoniale e una sedia. Ci sono delle scarpe nere e lucide appese per le stringhe a un gancio sulla parete maculata di umidità. Non ci sono foto, di questa passeggiata tra barber shop e spaza, grigliate che ti offrono e bambini che camminano come adulti e ti guardano come bambini. Le loro manine sono morbide e calde e te le porgono non per chiederti nulla ma per prendere la tua, bianca e fredda, e continuare a camminare con te parlandoti una lingua che puoi provare a interpretare. E' Xhosa, la lingua più musicale che abbia mai sentito, non solo per via degli schiocchi con la lingua ma per la cadenza delle parole, lunghe e sinuose come il suono di un'arpa.



Il giro per i viali di baracche a tratti colorate e vivaci non è organizzato per la curiosità che si esaudisce in un paio d'ore, ma nasce da un percorso, da frequentazioni, da simpatie. Nasce da incontri, da eventi che si incatenano, da sentimenti che si riconoscono. A noi bianchi lì viene insegnato di non aver pietà, di non dire poverini, perché è con orgoglio che si aprono le porticine dentro casette linde e attrezzate, le tazzine del caffè ordinate e le pentole impilate sopra la stufa lucide come a me non viene mai. Io, che non è la prima volta che ci vado, non ho ancora capito bene lo spirito di tutto quell'orgoglio e quella gioia che ci sono e sono veri. E chissà quante volte ci dovrò tornare per capirlo davvero. Figuriamoci se vi porto a fare un giro come allo zoo comunale...

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