Kayamandi, la township rinata (subito) sulle ceneri
Un blog subisce le vicissitudini del suo titolare e andare a
vivere nell’altro emisfero è una bella avventura – anche da raccontate – ma assorbe
tempo ed energia, a volte ti assottiglia il vocabolario e te lo imbastardisce
tanto da fare un errore già alla terza riga e così finché non si ripensa ai giorni di assenza, e si sperimenta un certo rincrescimento sbirciando quello spazio
ancora là, a disposizione.
E poi, nel repentino fluttuare dell’umore tipico
occidentale, capita una cosa che risorge sulle ceneri e vuoi proprio raccontare
anche per un egoistico bisogno di mettere nero su bianco e capire. E’ un
incendio. Che divampa in una caldissima notte buia come in natura di un autunno
sudafricano, su una collina dove si arrampicano le decine di migliaia di baracche
di una delle innumerevoli township della Nazione Arcobaleno. Sono fiamme che
partono poco prima della mezzanotte da una delle shacks di latta e di legno,
tanto legno ovunque, alberi e pali della luce carbonizzati assieme a 1500
casette, 20 metri quadrati l’una, 4500 persone rimaste senza tetto nel giro di
poche ore, senza poter fare niente né loro ne i pompieri “arrivati con i mezzi
quasi vuoti, buoni a sparare acqua per quindici minuti” raccontano in troppi
per non essere vero.
Benvenuti a Kayamandi, che in Xhosa, la lingua di Nelson
Mandela, significa Casa dolce casa: i numeri ufficiali parlano di 25mila
abitanti ma chissà quanti se ne passano prima di arrivare a quel punto più alto
ormai ricoperto solo di cenere e gente seduta sulle cassette delle bibite o in
piedi già all’opera nella ricostruzione. Ecco, la vera stupefacente storia è
questa che vede, a dieci ore dall’inizio del disastro, con ancora cumuli di
brace fumante tra monumentali carcasse di lamiere modellate dal fuoco, c’è già
chi inchioda a pali di legno nuove lastre di latta, chi le colora, chi toglie
la cenere dai quei 5x4 metri quadrati nei quali viveva e sui quali sta per
ricostruire la propria casa dolce casa. Ci sono bambini che giocano, ragazzine
che si fanno fotografare, donne sedute all’ombra che riprendono fiato mentre
gli uomini ti chiedono di immortalare quel momento “take a picture take a
picture madame, I’m building my new house” e mentre batte con violenza il
piccone ride. Ridono quelli che gli stanno attorno, sorride e saluta quello che
sta passando la scopa sulle piastrelle sbilenche sulle quali presto tornerà a
camminare, si mette in posa la diciassettenne seduta ad allattare la bimba di
due mesi, un altro ben vestito dice che però quelle che indossa sono le uniche
cose che gli sono rimaste.
Su facebook le foto vengono commentate dagli amici
con affanno e devastazione, bel reportage ma orrenda tragedia scrive una: io mi
guardo attorno e sì, anch’io la definirei così. Una tragedia. E’ la stessa parola che usa un uomo
anziano bianco, forse uno delle ONG. Allora trovo coraggio e a questo ragazzo
con i pantaloni eleganti, la polo in tono e un originale cappellino colorato domando
una domanda che mi sembra idiota e imbarazzante e che in altre parti del mondo,
tipo il nostro, avrebbe una risposta a dir poco rude: ma com’è che non c’è uno,
dico uno, che pianga, urli, si disperi. “La vita è difficile…” risponde sempre
mostrando la fila di denti bianchi. “Ma oggi è anche ben più difficile” mi vien
fuori con grande coraggio a parlare così a uno che ha perso tutto. “Sì sì, oggi
è più difficile madam, è vero. Non ho dormito e non dormirò nemmeno stanotte:
devo ricostruire la mia casa, anche se non ho più le mie bellissime sedie,
look”, aggiunge con rammarico indicando quel che ne rimane nero e
irriconoscibile. Tutto attorno è rumore di martelli che battono sui chiodi e
puzzo di bruciato e un profumo di griglia che preannuncia l’ora di cena, mentre
arrivano i primi volontari giovani e forti che sollevano in cinque blocchi di
lamiere annerite che una donna di qui, una nera grassoccia e soda, sta invece
trascinando da sola.
Dopo nemmeno una settimana, ieri, 21 marzo, è quasi tutto
ricostruito anche se gli aiuti pubblici non si sono ancora visti. Ma intanto
han già fatto da soli – qualche grande magazzino ha donato materiali nuovi,
altri vecchi e meno bruciati sono stati riciclati: c’è anche chi ha solo tre
pareti e un tetto. Per l’ultimo pezzo si vedrà, ma la copertura sulla testa almeno
c’è, spiega con giudizio questo giovane uomo con gli occhi piccoli dietro una
montatura nera da intellettuale e la crema bianca in faccia per ripararsi da
raggi del sole. Sta seduto con la moglie in questo forzato open space mentre
mangiano del pollo allo spiedo e bevono l’immancabile Coke. Al posto dei soliti
bagni pubblici comuni, uno per venti o trenta persone, ci sono quelli chimici:
un inferno con questi 35 gradi autunnali. Ma questo è compito della
Municipalità e la burocrazia è sullo stesso fuso orario del resto del mondo. Ma
nemmeno in questa giornata speciale qui si lamentano: è giorno di festa nazionale e nonostante il
caldo si continua a ricostruire e si mangia davanti tra gli stretti corridoi
che si stanno ricreando, tra una baracca e l’altra: in Sudafrica si festeggia
la Giornata dei diritti umani. Niente di più indaguato. E non solo qui.
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