Poveri bianchi, arcobaleni scoloriti (da ITALIA CARITAS magazine di Aprile)




testi e foto di Lorella Beretta da ITALIA CARITAS magazine Internazionale  numero di aprile 2013

Si incontrano ai semafori. Nei parcheggi dei supermercati. Addirittura nelle township nere. O nei miserabili squatter camp. Bianchi in miseria: emarginati al contrario? Fenomeno in crescita, ma niente statistiche: il paese non vuole vedere

La pelle bianca incartapecorita dal sole sudafricano risalta ancora di più, grazie al biondo dei capelli e agli occhi azzurri trasparenti come l’oceano: le mani, rugose come il viso, tengono un cartello di richiesta d’aiuto. A volte solo in afrikaans. Se non bastassero i pochi numeri ancora disponibili, che quantificano la povertà estrema in cui vivono sempre più bianchi sudafricani, lampante è oggi la loro presenza, anche in luoghi insospettabili, fino a due o tre anni fa: semafori e parcheggi dei grandi centri commerciali, spiazzi lungo le strade principali. Fanno l’elemosina o provano a vendere di tutto, a volte per cercare di fermare il declino, a volte per potere pagare almeno il dormitorio, mangiare, anche ubriacarsi e drogarsi.
Alcuni di loro sono così abbronzati da confondersi con gli altri, i neri o i colored. La differenza la fa il numero di ore al giorno passate per strada. La cifra comune, invece, sono i sorrisi sdentati. E la certezza che ben pochi si occupano di te. Anzi, per i bianchi è anche peggio. La solidarietà all’interno della comunità white è una rarità, lo dicono tutti quelli che ne avrebbero un gran bisogno.
Pieter Koen ha 46 anni e da qualche mese guarda le macchine al parcheggio dei grandi centri commerciali. Indossa pantaloni eleganti con la piega, ed è un fiume in piena: parla nove lingue, era un consulente di marketing, lo chiamavano in Europa per aiutare le persone ad aprire business; lavorava anche nelle township, nei progetti di empowerment delle comunità povere nere: «Cinque anni fa – allarga le braccia – sono stato dichiarato insolvente: colpa delle banche. Mi sono ritrovato in una difficile situazione finanziaria, e mia moglie mi ha lasciato, se n’è andata con i nostri due bambini».


Assunti per quote di colore
Pieter dorme in un magazzino dove gli permettono di stare e dove può continuare a mantenere un’apparenza elegante, che forse un giorno potrebbe farlo risollevare. Ma senza aiuto dallo stato né sostegno dalla famiglia, per lui non sarà facile: «Per un uomo bianco oggi è difficile trovare lavoro, anche se qualificato: ed è anche difficile avere agevolazioni per iniziare un’attività indipendente», sintetizza mentre prende l’ennesima mancia da un’automobilista.
L’accusata numero uno è la Bee, la Black economic empowerment, legge che prevede quote di assunzione in base al colore della pelle, introdotta per far recuperare a neri e colored decenni di esclusione. Molti sostengono che tale normativa è una discriminazione: positiva, ma pur sempre discriminazione. Soprattutto 19 anni dopo la fine dell’apartheid. Per i sostenitori, la Bee è invece di un’affermative action indispensabile per colmare le diseguaglianze su base razziale accumulate in quarant’anni e oltre.

I toni si sono riaccesi alcuni mesi fa: dopo la denuncia di un lettore, un quotidiano locale scoprì che la compagnia di bandiera South African Airways sistematicamente non assumeva uomini bianchi. Come in ogni modulo per una qualsiasi pratica sudafricana, anche sul sito internet della Saa veniva richiesta la race, la razza: appena barrata la casella white, la compilazione veniva bloccata. La società spiegò candidamente che piloti bianchi sono e continueranno a venire assunti «quando ci saranno posti vacanti non riempiti con altri candidati delle altre razze». Il portavoce aggiunse: «Solo il 15% dei piloti è nero, colored o indiano».
Un mese dopo, era settembre, la catena di grandi magazzini Woolworths pubblicò un annuncio di assunzione di neri, colored e indiani per alcuni reparti – venne spiegato, appellandosi alla legge sull’equità nell’occupazione – «in cui c’è una predominanza di bianchi da bilanciare». E giù costituzionalisti, soloni, giornalisti e politici, impegnati in un dibattito sempre più acceso.

Attorno al 12% del 10%
«I poveri bianchi sono guardati dalle classi medie e alte con vergogna, sospetto, fastidio e colpevolezza», ha scritto Edward-John Bottomley, giornalista sudafricano, nel suo libro Poor White. Più un excursus storico che una fotografia dell’oggi, per una questione di delicatezza: «Qui in Sudafrica ti chiederebbero perché occuparsi di un fenomemo così marginale, perché non scrivere della più sconfinata povertà dei neri, dei colored, degli indiani. È lo stesso motivo per il quale non trovi statistiche: la prima obiezione è che sarebbero soldi pubblici sprecati. Invece è un elemento importante per capire la sempre più larga forbice tra ricchi e poveri in questo paese».


Trovare dati precisi, ricerche sociali come accadrebbe in qualsiasi altro posto, infatti non è facile. Per ora gli unici numeri – e  nessuno li ha mai contestati – sono quelli di Solidarity, il grosso sindacato afrikaaner, considerato vecchio stampo, ma unico interlocutore anche per il governo: 600 mila bianchi sudafricani, su un totale di 6 milioni, vivono sotto la soglia di povertà. Altri 150 mila sarebbero totalmente indigenti. Il totale fa il 12% del 10% della popolazione complessiva della Rainbow Nation, la nazione arcobaleno.
Dentro quella cifra c’è chi ha ereditato la povertà dai tempi dell’apartheid – i bianchi poveri esistevano anche allora – e chi l’ha conosciuta con la fine del sistema della “separazione” e con l’avvento dei governi “neri”. Vivono nei quartieri a basso costo o nelle baracche degli squatter camp: per Helping Hand, associazione caritatevole legata a Solidarity, ce ne sarebbero più di 400 sparsi in tutto il paese. Ma residenti bianchi si cominciano a vedere anche nelle township, le città satellite finora abitate solo da neri e colored.

I Tre Moschettieri
«Siamo gli invisibili», dice alzando le spalle arrendevole, senza astio né cattiveria, Alex, 45 anni segnati dalla strada, dove trascorre ogni benedetto giorno prima di tornare, verso sera, al dormitorio pubblico, per tentare di accaparrarsi uno dei pochi posti letto disponibili.
Alex è uno delle centinaia di migliaia di armblanks, il termine Afrikaans che sta per homeless. Ha un cellulare scassato sul quale aspetta qualche chiamata di lavoro a basso costo e una e-mail che controlla ogni mattina da uno dei computer della biblioteca comunale. Con calma, la giornata è lunga; poi legge i giornali, un libro, e annota frasi per i suoi segnalibri fatti a mano che lui e l’amica Janine venderanno ai turisti: aforismi classici e moderni, a fianco i numeri utili, quello della polizia, del pronto soccorso, e così via.
Janine ha un occhio verde e uno azzurro, una vispa intelligenza, una mente svelta, ma anche anni di abusi alle spalle. Non ha e non avrà mai una pensione, un sussidio, e lo sa bene. Non ha speranza, ma non è disperata. È bella ma le rughe dichiarano un’età gonfiata e lamenta, tra le altre privazioni, l’impossibilità di una qualche crema che la ripari dai raggi solari. Lei e Alex, con John, formano i “Tre Moschettieri”, almeno per ora. John racconta di lavori promessi in cui ancora spera e di botte di strada per portarsi via niente, e intanto cammina con un borsone e il sacchetto di plastica in cui accumula oggetti non identificati, che prova a rivendere. Lui dorme per strada «perché al dormitorio c’è il racket: dobbiamo pagare sette rand a notte e non ti danno neppure la colazione. La gente dona cibo che altrimenti butterebbe, ma se vuoi qualcosa lo devi pagare. E poi devi fare la guerra con gli altri per vincere la roulette dei posti letto».


Wilhelmina intrappolata
«Il Sudafrica è una nazione mista», soffia timidamente, con la sua voce bassa, Wilhelmina, che ha 74 anni e aspetta l’autobus in Koeberg Road, quartiere di Brooklyn, dieci minuti da Città del Capo. I sociologi definirebbero il sobborgo il frutto di un “mix sociale”, ma in realtà esso si è trasformato per un accidente della storia da quartiere della low class bianca a distesa di abitazioni cheap, economiche, per la low class nera.
Wilhelmina è una delle persone anziane rimaste a vivere qui, tra casette costruite all’inizio del secolo scorso attorno alla base della South African Air Force. Adesso è una delle terre di nessuno, tra l’autostrada e la litoranea sul mare lungo la quale si comincia a sentire l’odore di emarginazione estrema, droga, prostituzione, gang criminali che tutti i giorni riempiono le pagine dei giornali. Molti bianchi sono scappati, anche solo pochi chilometri più in là. Wilhelmina e altri come lei, invece, continuano a vivere in quelle palazzine di mattoni vuoti e a pezzi, in mezzo a gente che non riconoscono.
Come ci sta? Ha paura? Sgrana gli occhi azzurri e prova a rispondere. La sua pensione è di 1.200 rand al mese, più o meno 120 euro. Quelli che sono rimasti intrappolati qui, come in centinaia di altri quartieri del Sudafrica moderno, non possono neppure pensare a un altro posto. Nemmeno un ospizio, quando non saranno in grado di cavarsela da soli. Ma almeno qualche assistente sociale ogni tanto fa capolino e un po’ di solidarietà tra ultimi aiuta nei momenti peggiori. E poi c’è l’autobus comodo che porta altrove. Compresa la vicina Milnerton, dove ogni sabato e domenica, al mercatino delle pulci, le bancarelle sono soprattutto di bianchi con i maglioni rattoppati e i capelli stopposi, e però la voglia di fare sempre una battuta.

Ruyterwacht-Willie Cockrell (photo Paul Alberts)
Ruyterwacht squatter camp Willie Cockrell raccoglie gli avanzi alla mensa pubblica (photo Paul Alberts)

Con Andres cinque in roulotte
Andres, 70 anni, abita una roulotte. Deve occuparsi di cinque persone: la nuora è una sveglia, rossa di capelli, che confeziona candele a forma di dolcetti da vendere ai turisti; il figlio non trova lavoro e rimane nel camper a curare i bambini, tre. Così lui, l’anziano, tutti i giorni si fa lunghi chilometri a piedi per piazzarsi al parcheggio del tribunale: indossa il giacchino giallo catarifrangente, dà un occhio alle macchine parcheggiate e una mano a fare manovra, in cambio di qualche monetina. Come tutti quelli come lui, è ottimista e riconoscente: «Ci sono persone che mi danno qualche soldo più del previsto», racconta sventolando le banconote di carta. Si tratta di qualche bianco generoso. Qualcuno, ma questo non lo dice lui, con il desiderio di lavarsi la coscienza.
A fine giornata Andres, e migliaia come lui, tornano nello squatter camp, dove non ci sono l’elettricità e l’acqua corrente e dove la promiscuità rende la vita povera un inferno ancora peggiore. Gli altri bianchi sudafricani nemmeno si avvicinano, né con la macchina né col pensiero. «È più facile che facciano volontariato nelle township per aiutare neri e colored: noi siamo come loro e loro hanno paura di diventare come noi», dice Andres, lucido e freddo come un chirurgo.
Anche lui era un middle class, finito in disgrazia: un monito per i bianchi ancora benestanti. Gli squatter camp, d’altronde, sono accampamenti dove si vive in condizioni estreme, dove la povertà non è solo economica, ma educativa e di relazioni sociali. Villaggi di case povere, senza allacciamenti né un cristiano che si presenti ad aiutare, se non qualche fotoreporter attirato da visi asimmetrici, sguardi profondi come baratri, nocche delle mani uguali tra uomini e donne.
Con pietà e rifiuto, queste persone vengono raccontate come il frutto di incroci su incroci, che hanno come risultato deficit mentali e ritardi strutturali. Insomma, un’altra cosa. Alcuni di loro ricevono cibo un paio di volte la settimana e qualche aiuto dalle associazioni, di solito legate a una chiesa. Per il resto, vivono la loro esistenza fino al tramonto dentro comunità chiuse: all’ombra di metropoli come Johannesburg, schiacciati tra un’autostrada e l’aeroporto a Città del Capo, nascosti nelle belle foreste di Knysna. Ci sono bambini, figli di qualcuno, che corrono su e giù con giochi di latta, o stanno immobili, aggrappati alla mamma mentre fuma e sorride con le gengive. Ci sono anziani dimenticati sui letti molli, ammantati di coperte sbiadite, appoggiati contro le pareti spoglie di un’unica stanza che fa anche da cucina. Ci sono giovani vestiti da bulli come negli anni Ottanta e ragazze che sarebbero belle se non fosse per l’alimentazione sbagliata, che le rende troppo grasse o troppo magre, senza un filo di salute.

Marinda Odendaal Ruyterwacht Squatter Camp
 
Nulla è cambiato
La Montagna della Tavola, a Cape Town, veglia anche sulla loro vita di ultimi tra gli ultimi. Le regole che vigono qui, sotto lo spettacolare rilievo, sono quelle di una battaglia per la sopravvivenza, dove ogni tanto c’è spazio per la solidarietà reciproca, ma il più delle volte è guerra: fisica o di parole.
Il mondo scoprì questo pezzo di Sudafrica, sconosciuto anche ai sudafricani, nel 2008, quando Jacob Zuma, da presidente dell’Anc (il partito di governo, da Mandela in poi), in campagna elettorale per le presidenziali andò a visitare uno di questi insediamenti: il gesto era una notizia eclatante, e lo divenne ancor più quando, col suo tono lento e cadenzato, Zuma si disse «sorpreso e scioccato» e promise di impegnarsi a sostegno delle classi più umili. Divenne poi presidente del Sudafrica e da allora nulla è cambiato: né per i poveri bianchi, né per quelli neri. Anzi, tutti lamentano abbandono e disinteresse.
Così, nel 2010, anno dei Mondiali di calcio, battezzati da un invecchiato Mandela, ancora unica speranza del paese, i giornalisti internazionali non poterono non raccontare le vite scaricate lontano da occhi indiscreti. Coronation Park divenne lo squatter camp bianco più conosciuto. Uno delle migliaia di informal settlement in cui sopravvivono i poveri sudafricani, di qualunque razza siano, mentre su macchine nuove e potenti transitano i ricchi della Rainbow Nation, anche loro di qualunque razza siano: ché tanto i ricchi sono ricchi, a prescindere dal colore.

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