Mandela e il viaggio di ritorno nella Nazione Arcobaleno
Da sabato Nelson Mandela è di nuovo ricoverato in ospedale.
Questa volta - diciamolo - la situazione è davvero grave. I pur lunghi ricoveri dei mesi scorsi avevano tenuto il fiato sospeso dei Sudafricani e soprattutto agitato le troupe di giornalisti, mobilitato le redazioni, tirato fuori dai cassetti i coccodrilli scritti da anni, ché non si sa mai.
Nelson Mandela è un'icona, un simbolo, per tutto il Mondo. Ma come dice la moglie Graca Machel "Non è un santo: bisogna guardare a lui anche come a un uomo, con le sue debolezze e le sue forze".
Mentre c'è chi tuitta impunemente notizie false sulla sua morte - da mesi ormai di tanto in tanto succede, comprese le pubblicazioni dei pezzi addolorati di ricordo della figura - gente che cerca di individuare in ogni parola detta o non detta, cosa stia succedendo là, dentro l'Ospedale di Pretoria transennato e presidiato da crescenti contingenti ogni ora che passa.
I Sudafricani invece son persone abituate a combattere per la vita e a salutare la morte con dignitoso fatalismo. Anche quando arriva troppo presto, magari per le cure sbagliate di un sistema sanitario pubblico che non si cura dei propri poveri.
Nelson Mandela è un Xhosa.
Ho assistito a qualche funerale Xhosa: accompagnano i loro morti con cerimonie che durano giorni e giorni di preghiere e pasti collettivi: sono feste di saluto commiato al corpo e di cammino con l'anima.
Mossi dall'amore sterminato che nutrono nei confronti di Tata Madiba - che belli i loro occhi improvvisamente sgranati e luminosi ogni volta che lo nominano - da tanto tempo ormai pregano perché Dio lo chiami a sé "perché è anziano e sta soffrendo, e saremmo egoisti a dire che lo vorremmo sempre qui con noi. E poi speriamo che non veda come si è ridotto il Sudafrica, il suo, il nostro Sudafrica".
E poi: "Tocca a noi proseguire il suo cammino. Tocca a noi non tradirlo..."
Quando a aprile il professor Jonathan Jansen, attento commentatore politico e sociale sudafricano, aveva per primo detto ad alta voce questi sentimenti, tutti gli si buttarono addosso. Il perbenismo è una brutta bestia, soprattutto ignorante. Che non conosce.
Niente isterismi, niente di quella roba lì che scorre sui social media sgomitanti a chi darà la notizia per primo. Ai fiumi di parole, le dichiarazioni dei potenti pronti poi a correre per conquistare qualche miniera o appalti per le ferrovie e l'elettricità, o per sfruttare quella vastità di consumatori compulsivi. Poveri ma tanti. E istruiti a comprare, comprare, comprare. Se sei povero, non sei destinato a vivere a lungo, è sempre stata una delle convinzioni di Nelson Mandela. E purtroppo la maggioranza dei Sudafricani oggi è povera, più povera di vent'anni fa, ha accusato Mamphela Ramphele, attivista Anti Apartheid, compagna di Steve Biko, medico, docente universitario, imprenditrice.
E allora tutti pronti, a piangere e rimpiangere Mandela senza aver capito niente. Come ha esplicitamente detto Antjie Krog, poetessa, scrittrice, giornalista:
Il mondo continua a guardare Mandela come a un'icona piuttosto che come a un grande leader. Voglioni tenere le sue mani, avere le sue foto ma mai, mai capire cosa sta cercando di indicare. E' un rifiuto universale ad accettare il suo spirito".
Per fortuna tra poco comincia il mio volo di ritorno. Venti ore di black out informativo. Venti ore prima di rivedere la Table Mountain e gli spazi immensi. Venti ore prima di risentire tutti gli accenti possibili della gentilezza: "Good morning madame how are you today" o "Welcome back: did you enjoy your flight?".
Venti ore prima di incazzarmi per quella distesa di baracche povere sempre più ampia. E poi subito commutare su un sentimento più positivo, un po' per osmosi assorbire quella forza per costruire un futuro che in tanti riescono a tenere nonostante la corruzione e il nepotismo, la violenza e l'incuria. Chiedetemi queste storie, non coccodrilli o dichiarazioni altisonanti, vi prego.
Buon viaggio.
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