La Turco-Napolitano-Bossi-Fini e l'Italia senza futuro
Uno dice Bossi-Fini e assieme a quei due volti rancorosi pensa alle carrette di disperati che sempre troppo spesso non attraccano vivi alla terraferma. Tutti, ma proprio tutti, si pensa al portinaio filippino, al manovale rumeno, si pensa ai sordidi campi rom, al panettiere egiziano, al vu cumpra' senegalese. Si pensa alla badante ucraina con la laurea in tasca, esattamente come la stiratrice, il giardiniere, il muratore. Si pensa agli spacciatori e alle prostitute. Alla malavita. Ma anche alla vicina di casa algerina e alla sua numerosa famiglia, ai loro figli sempre piu' numerosi vicini di banco dei nostri. Noi, loro, ma sempre con quella linea di confine che anche nell'animo buonista non si stempera mai. E' un coagulo di buoni e cattivi sentimenti di quell'Italia brava gente che ci piace tanto essere, tra un burraco e la merenda home made come una volta. Si chiama ipocrisia.
Uno dice Bossi-Fini e pensa a loro due e a quella dicotomia in politica che ormai non esiste piu' nemmeno formalmente.
Uno dice Bossi-Fini e non pensa piu' alla Turco-Napolitano: i due "democratici" - non come i due loro successori sempre dipinti nel buio degli inferi dove proliferano satanici i razzisti - scrissero solo l'inizio di quel percorso di clandestinizzazione forzata ed estremizzata che poi gli altri portarono a termine. Turco e Napolitano e i loro leader avrebbero potuto invece lasciare un'altra impronta, piu' moderna, piu' visionaria, piu' democratica: fare una legge che permettesse l'ingresso regolare degli stranieri slegandoli da macchiavellici decreti flussi che ormai sono diventate finte sanatorie di quelli che gia' sono entrati - ovviamente clandestinamente - sul nostro suolo patrio.
Uno dice Bossi-Fini e si indigna o si eccita all'idea di queste orde di immigrati che "vengono da noi": gli uno sostengono per disperazione, gli altri son convinti che lo scopo sia delinquere.
Invece questa e' un'altra storia, altri colori, altre latitudini e longitudini, altri percorsi: una storia che per tutto sembrava diversa e invece sbatte contro il muro della Turco-Napolitano-Bossi-Fini.
Anika ha 21 anni e si e' appena laureata in economia: e' Sudafricana di Pretoria. Alta, magra, due occhi chiarissimi piu' della pelle, un sorriso a tutti denti , bianchissimi anche quelli. Se fosse bassa, cicciottella, nerissima con i capelli afro non cambierebbe il senso della storia: purtroppo in tempi di paura intellettuale come questi e' sempre bene, anche se deprimente, specificare l'ovvio.
Anyway. Ottima famiglia, ottimi studi, ottimo fidanzato, ottima testa, ottima persona: accetta la mia proposta di passare un anno alla au pair presso un'altra ottima famiglia italiana che vorrebbe sul serio far imparare ai propri figli un inglese spendibile in giro per il mondo senza temere figuracce. E' tutto perfetto. S'incastrano i tempi, s'incastrano offerte e proposte. Chiamiamo la societa' esterna che si occupa qui, come in altri paesi, dei visti per l'area di Schenghen: non e' direttamente l'Ambasciata dal cui sito si viene appunto rimandati a questa societa'. Il call center e' in Sudafrica e rispondono gentili cose che gia' sappiamo: l'au pair in Italia non e' riconosciuto. E suggeriscono di chiedere un visto per motivi di lavoro - general work, specifica senza aggiungere altro - allegando una autodichiarazione di ospitalità\copertura degli eventuali costi sanitari\paga mensile: scarichiamo il modulo dal sito della societa' esterna e chiedo alla famiglia di rimandare il tutto compilato con anche la copia dei documenti di identita' del dichiarante. Come chiesto sempre sul sito dell'agenzia privata che si occupa del visto.
Insomma, l'han fatta facile e quindi sara' davvero così facile: io, che mi sono occupata di immigrazione per anni, nemmeno ci penso che forse non e' che nel frattempo si sia risolto nulla. Mi sembra cosi bello che una ragazza che non parla una parola di italiano sia cosi entusiasta di andare in una entusiasta famiglia italiana desiderosa di imparare l'inglese. E poi siamo in Sudafrica, paese ricco: lei ha la sua assicurazione privata, i suoi conti correnti da esibire per il visto. Insomma, non c'e' nulla che osti. A questo punto e' tutto pronto: telefonatina in Ambasciata per fissare un appuntamento ma una voce scostante dall'altra parte sbraita che bisogna ci sia un contratto registrato all'Ufficio provinciale del lavoro. Beh, dico, in effetti ci sta. Va bene lo facciamo. Chiamo il sindacato per farmi seguire nella pratica in Italia e la chiacchierata con un fidato amico di vecchia data - responsabile dello sportello immigrazione da oltre un decennio - mi ributta nel passato che e' ancora presente:
no, non e' cambiato nulla. e lei e' come tutti gli altri: entra in Italia solo se e quando ci sara' un decreto flussi che come sai - aggiunge lui ma gia' appunto lo so - non serve a far entrare nessuno ma solo a sanare, senza ammetterlo, chi gia' sta lavorando in Italia! e gli altri? se vogliono entrano da clandestini e aspettano il decreto flussi finta sanatoria. e Anika? lei non scappa da guerre ne' fame, non vuole un lavoro in Italia e quindi perche' dovrebbe togliere posto a chi invece cerca stabilita' li? Anika, e chissa' quanti giovani come lei, vuole solo vivere la sua giovinezza godendo di un anno sabbatico senza gravare sull'Italia ne' sugli italiani, con la sua paghetta mensile per le conversation in famiglia, con i suoi risparmi, con mamma e papa' che la seguiranno da 9mila chilometri di distanza, con una famiglia italiana che sara' come la sua famiglia. Anika vuole conoscere l'Italia e l'Europa, la famiglia italiana vuole far imparare l'inglese ai propri figli pensando al loro futuro.Ma la Turco-Napolitano-Bossi-Fini e' una legge che tiene l'Italia fermamente ancorata a un passato sempre piu' straccione. Per tutti.
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