Pistorius, corretto l'omicidio colposo. Mancavano le prove: ma perché?
Detto
che purtroppo una persona è morta – donna, uccisa dal fidanzato, ma non ne farei solo una questione di genere –
e non la riporterà in vita nemmeno la più severa delle condanne; detto che era evidente sin dall'inizio - per chiunque abbia letto le
carte e ascoltato il dibattimento - che mai sarebbe stato riconosciuto
il premeditato; detto che avevo previsto il colposo ma non pensavo
che sarebbe stato argomentato in maniera così debole; detto che per
condannare una persona ci vogliono le prove e che qui - forse
stranamente, ma questa è una mia opinione che spiegherò più
diffusamente - prove non ne sono state portate, detto che quindi
questo era l'unico verdetto possibile. Anche se non ci pare giusto*
Invece
il verdetto è giusto, almeno per ora stando a quanto successo dentro il Tribunale
di Pretoria. Poiché gli esperti legali si dividono nettamente in due - quelli per cui la giudice Thokozile Masipa ha correttamente applicato la legge e quelli per i quali invece Masipa ha erroneamente applicato alcuni concetti - solo un altro dibattimento in aula potrà dire il contrario. Vediamo se il Procuratore Gerrie Nel, il grande perdente, andrà in Appello.
Per ora Pistorius non poteva essere condannato ad altro che “omicidio colposo” perché l'accusa non ha provato il requisito essenziale per il “murder”, l'omicidio doloso: l'intenzione di uccidere. Lo dice anche la Suprema Corte che lo Stato – cioè la Procura – deve "dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio la soggettiva previsione da parte dell'imputato della possibilità che la sua azione potrebbe comportare la morte della vittima e nonostante questo persista nella sua condotta”. La questione fondamentale non è “se avrebbe potuto accettare gli effetti dell'atto ma se effettivamente li ha accettati”. Siamo oltre le più fini discussioni in “legalese”, cose da raffinati e costosi avvocati. Sicuramente si va giù molto più con l'accetta, quando ci sono imputati disgraziati. Chiunque abbia seguito un paio di direttissime, anche in Italia intendo, lo sa bene.
Per ora Pistorius non poteva essere condannato ad altro che “omicidio colposo” perché l'accusa non ha provato il requisito essenziale per il “murder”, l'omicidio doloso: l'intenzione di uccidere. Lo dice anche la Suprema Corte che lo Stato – cioè la Procura – deve "dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio la soggettiva previsione da parte dell'imputato della possibilità che la sua azione potrebbe comportare la morte della vittima e nonostante questo persista nella sua condotta”. La questione fondamentale non è “se avrebbe potuto accettare gli effetti dell'atto ma se effettivamente li ha accettati”. Siamo oltre le più fini discussioni in “legalese”, cose da raffinati e costosi avvocati. Sicuramente si va giù molto più con l'accetta, quando ci sono imputati disgraziati. Chiunque abbia seguito un paio di direttissime, anche in Italia intendo, lo sa bene.
Anche
se ci fa incazzare, l'omicidio colposo era l'unico esito di un
percorso accidentato e claudicante: ancora le sentenze si fanno non
con la pancia ma con la validità delle prove agli atti. E qui
purtroppo – ma viene immediato chiedersi come mai – quelle
portate dal Procuratore Gerrie Nel era deboli, debolissime. Lui,
considerato un pitbull – il suo soprannome – non è stato in
grado di produrne di vagamente degne di tale nome.
Devo
dire che la cosa mi balzò agli occhi immediatamente, sin dal
dibattimento in aula per la liberta' su cauzione. In quell'occasione
emersero i primi errori degli investigatori ma anche la disperazione
di un Avvocato dell'accusa come Nel: tra le tante brutte figure
che fece spicca la vicenda della presunta casa in Italia che
Pistorius avrebbe posseduto e nella quale, secondo lui, sarebbe
scappato se gli fosse stata concessa la libertà condizionale.*
A
parlare di quella residenza fu in aula il Capitano
Hilton Botha sul quale
poi vennero scaricate le responsabilità dell'infausta figuraccia:
Botha era a capo della squadra investigativa che arrivò sulla scena
del delitto e che, emerse ben presto, spostò oggetti, ne fece
sparire degli altri, camminando e toccando cose senza le protezioni. La squadra investigativa ovviamente faceva riferimento al
Procuratore. Eppure quando Botha disse al Procuratore che aveva
appreso da un articolo apparso sul magazine Afrikaner Sarie che
Pistorius aveva una casa in Italia dove sarebbe potuto fuggire alla
giustizia sudafricana, Nel ben si guardò dal verificare quella
fonte. No, fece fare quella dichiarazione in aula a Botha e quando
emerse che non c'era nessuna casa intestata all'atleta, il militare
fece da utile capro espiatorio. Nel proseguì invece il suo lavoro.
Nonostante altre due gaffe in quella prima fase che vennero subito
riportate da tutti i media del pianeta – ad eccezione
della Radio Svizzera per la quale ho seguito il processo, che
ringrazio per la fiducia e che accogliendo le mie riserve e non ne
diede notizia; annotazione poco elegante ma necessaria*: la
presunta assunzione di steroidi da parte di Pistorius e il presunto
colpo sulla testa di Reeva con il bastone poi risultato essere stato
utilizzato per aprire la porta del bagno.
Il
processo vero e proprio poi iniziato il 3 marzo 2014 confermò la
superiorità dialettica e oratoria della difesa rappresentata da
Barry Roux, altro mastino dell'avvocatura sudafricana. Roux, a
differenza di Nel, non morde alla gola: lui studia le carte e con
calma, estrema calma, affonda il colpo. Non ne sbaglia uno. Prima
ancora che il castello di carte – non sempre vere – di Nel venga
fatto crollare dalla giudice Thokozile Masipa, perde consistenza nel
corso del procedimento. Masipa poi ci mette del suo, in alcuni casi si arrampica sui vetri, avanza spiegazioni anche sconcertanti ma la questione rimane quella: è compito dell'accusa provare la colpevolezza dell'imputato. E questo non è successo.
L'impianto
accusatorio - franato - di Nel si basa su:
- I vicini di casa e la loro testimonianza sono il pilastro centrale: per Nel sono attendibili ma quando Roux chiede per esempio la distanza della loro villa da quella di Pistorius nessuno sa rispondere. Cioé nessuno ha verificato se aver udito chiaramente cosa succedeva attorno alle 3.15 della notte di San Valentino a casa dell'altleta fosse compatibile con la posizione del punto di osservazione.I testimoni principali sono due coppie: Michelle Berger e il marito Charl Johnson e Johan Stipp e la moglie Annette. I Johnson dichiarano di essere stati svegliati da terribili urla di voce femminile che chiedevano aiuto, di aver chiamato la security e quindi di aver udito quattro colpi di pistola. La signora Stipp invece prima avrebbe sentito tre colpi di pistola e subito dopo urla raccapriccianti. Il marito invece sentì la sequenza contraria. Un'altra vicina, Estelle Van Der Merwe, invece fissa alla 1.56 l'ora in cui l'avrebbe raggiunta sempre una voce femminile che sembrava impegnata in una litigata. C'è una testimonianza di una delle guardie del complesso residenziale impegnata in un giro di controllo, per la quale alle 2, quando lui passa da casa Pistorius, tutto e' calmo.
- Il cibo non digerito nello stomaco di Reeva: Pistorius sostiene che avrebbero cenato alle 7 di sera, ma l'autopsia rileva che c'erano dei residui non digeriti che indicherebbero che la vittima aveva mangiato un paio d'ore prima di essere uccisa. Per la giudice Masipa Reeva potrebbe essersi alzata per mangiare qualcosa mentre Pistorius dormiva: un'ipotesi valida come altre. Di pancia ci vien da dire un po' troppo tirata, ma poiche' e' l'accusa a dover dimostrare le proprie tesi, vale di più quella della difesa – impossibile definire i tempi di lavoro dello stomaco. Grazie al cielo o purtroppo in alcuni casi, funziona così.
- I whatsapp in cui Reeva lamenta al para-fidanzato una eccessiva litigiosità della loro relazione sono blandi e non provano l'intenzione di Pistorius di ucciderla.
- La navigazione su Internet del cellulare di Pistorius per poco meno di 5 minuti in un orario in cui lui ha dichiarato che stesse dormendo: l'esperto telecomunicazioni della polizia – Capitano Francois Moller – in aula ha però testimoniato che quella attività può essere compatibile con il lavorio in automatico delle App.
Come
si può capire, non c'è una prova vera e forte che non crolli sotto
semplici argomentazioni di logica come quelle addotte dalla difesa e
dalla giudice.
Se
Pistorius avesse ammazzato un uomo, anziché una donna, l'esito
sarebbe stato identico. Non è una questione di genere, non
confondetevi. Ma di ceto, di potere.
Quindi l'omicidio colposo, dati i fatti di cui sopra, era l'unico esito possibile.
Ma rimangono sospese delle domande e sopra tutte una senza la necessaria
risposta: perché Reeva si era chiusa a chiave in bagno? Masipa,
nella lettura della sentenza, ha motivato la presenza del cellulare
accanto al cadavere col fatto che lei lo avrebbe usato per farsi
luce. Anche questa tirata. Ma non ha nemmeno fatto cenno al fatto che
lei ci si fosse chiusa a chiave. Immaginate, vi alzate nel cuore
della notte per andare in bagno a casa del vostro fidanzato e
chiudete a chiave. Perché?
Allora
sorge un'altra domanda: dov'era il Procuratore Nel prima e durante la
sentenza? Perché si solleva qui una questione dirimente come questa
e non in Tribunale?
Perché
uno spirito agguerrito come Nel perde la più importante delle sue
battaglie come un bambino dell'asilo a biglie? C'entra col fatto che
Pistorius è bianco, famoso o forse che è non solo famoso ma anche
particolarmente ricco? E che si prende il migliore avvocato, fidatevi
non solo su piazza sudafricana. E forse non solo il migliore
avvocato. LB
*In corsivo le (mie) opinioni, in tondo i fatti
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